Chi pensava che lo scontro congressuale all'interno del Partito democratico fosse partito col piede sbagliato, da ieri deve rivedere il giudizio al ribasso. L'ultima esternazione di Debora Serracchiani, presunta incarnazione del «nuovo che avanza», nonché vicesegretario in pectore del Pd se Dario Franceschini prevarrà su Pier Luigi Bersani, ha spostato definitivamente il dibattito dalla politica all'antropologia. Prima Serracchiani ha spiegato che sosterrà Franceschini perché «più simpatico». Quindi ha aggiunto che la sfida è tra due fronti: «Di qua c'è il progetto del Pd, dall'altra parte c'è D'Alema. Io sto col Pd». Serracchiani non porta argomenti di merito a supporto della bipartizione tra il Pd degli umani (il suo e di “Dario”) e il non Pd degli alieni, letteralmente, rappresentato dal D'Alema totem degli appartchik. È così, per apodittica decisione della fanciulla. D'altra parte, seguirla su questo terreno, anche solo per confutarla, magari ricordandole il corposo curriculum partitico di sostenitori di Franceschini come Franco Marini, Piero Fassino o Beppe Fioroni, sarebbe sbagliato quanto inutile, dato che la ragazza trentottenne si dice convinta che nella vita Dario «fa l'avvocato come me». Potrebbe comunque non essere un male per il dibattito interno, questa moratoria sui contenuti, dal momento che stiamo parlando della stessa Serracchiani che si fa intervistare da Repubblica e non trova altra ragione di sostegno a Franceschini che non sia la simpatia, neanche fossimo in un film di Christian De Sica, simpatici contro antipatici, o il richiamo al «nuovo», e nuovo per fare che non si sa. Della medesima Serracchiani balzata agli onori della cronaca per aver pronunciato un discorso pubblico che demoliva la leadership democratica e che si è poi trasformata nella mascotte congressuale dei due principali esponenti di quella tanto vituperata leadership. Insomma, meglio per tutti non entrare nel merito. Altrimenti, per esempio, si dovrebbe chiedere alla neodeputata europea se oggi sarebbe ancora così caustica sul passaggio di consegne alla presidenza della commissione Sanità del Senato tra il laico Ignazio Marino, che con buona probabilità al congresso si schiererà con gli “alieni” dell'apparato, e la cattolicissima Dorina Bianchi, oggi sua collega di mozione, visto che fu l'appassionata critica a quella sostituzione il passaggio più applaudito del suo intervento. Lasciamo stare pure le sortite lessicali del Serracchiani-pensiero, come quelle in cui ammonisce Bersani che «piattaforma programmatica» è espressione vetusta. «Non si può sentire», dice a nome dei giovani Serracchiani, che certo, essendo peraltro assistita dallo staff di comunicatori già al servizio di Walter Veltroni, rimpiange il coraggio e la chiarezza di quando nel programma ufficiale per le elezioni del Pd veltroniano si proponeva il «social housing» (chi non sapeva trattarsi delle case popolari?) e «il benchmarking sistematico» della spesa corrente. Mettiamola così: Bersani segua il consiglio e passi a parlare di «programmatic hub». Spopolerà durante l'happy hour degli under 25. Lasciamo stare tutto questo e altro ancora. Perché la questione è un po' più seria di Serracchiani. E riguarda sia le regole di convivenza dentro un partito che il modo in cui il principale partito d'opposizione si rivolge agli elettori. Sul primo punto, è chiaro che l'impostazione «di qua il Pd, di là D'Alema», se trasformata in mozione congressuale, disegna uno scenario il cui unico sbocco è la scissione. Se non in senso letterale, di fatto. Perché con questa premessa non si scappa: se vince Bersani, il re degli apparati, il Pd “vero” non può che secedere. E viceversa. Nei partiti c'è un limite che non si può sorpassare, a meno che l'intento dichiarato sia quello di prendere altre strade. Quando durante le ultime primarie americane Samantha Powers, consigliera di politica estera di Barack Obama, dichiarò a un quotidiano «Hillary è un mostro, è una disperata che non si ferma davanti a niente», fu costretta a dimettersi. Funziona così anche nei partiti liquidi, tanto cari al veltronismo. Ma il problema ancora più grave è il messaggio che si trasmette all'elettorato. Quando Serracchiani dice che la sola esistenza di D'Alema nello schieramento a lei avverso legittima il fatto di schierarsi dall'altra parte ripropone in casa propria la più vieta formula dell'antiberlusconismo: l'ammucchiata politica contro la persona. Un contesto in cui la politica sfuma appunto nell'antropologia, declinata di volta in volta secondo la parola d'ordine della «diversità», della «superiorità morale» o dell'«alterità genetica». Tornare a questa impostazione sì che sarebbe un clamoroso ritorno all'indietro per il Pd. Se Serracchiani e i suoi seguaci non vogliono che Franceschini finisca davvero a fare l'avvocato, farebbero bene a rifletterci.
* da "il Riformista" di giovedì 2 luglio 2009
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