venerdì 12 giugno 2009

"IMPRENDITORI, DATE LO STIPENDIO LORDO AI LAVORATORI!" di Alberto Mingardi (da "il Riformista" del 7 giugno 2009)

Pubblichiamo anche sul nostro blog questo interessante articolo. Si trata di una critica molto precisa alla nostra dirigenza politica, ma è uno spunto di riflessione che non dobbiamo lasciare cadere.
Buona lettura.
(PdL Poggio Renatico)
Nel 2000, i radicali cercarono di presentare una ridda di referendum "liberisti" che, saltando l'intermediazione della classe politica, miravano a liberalizzare alcuni aspetti della vita economica italiana. Non ebbero fortuna, per due motivi. In primo luogo, la Corte costituzionale bocciò quattordici dei ventuno quesiti. Ai sette rimasti, venne poi a mancare qualsiasi sostegno dalla parte ad essi più affine, il raggruppamento guidato da Berlusconi, cui era più utile avere "problemi" ai quali promettere d'interessarsi, una volta tornato al potere, che "soluzioni" il cui merito politico sarebbe stato d'altri. Come è andata a finire lo sappiamo: il quinquennio berlusconiano non diede fiato alla domanda di libertà economica del Paese (eccezion fatta per la legge Biagi). E forse contribuì a smorzare l'entusiasmo dei ceti produttivi, che ne avevano decretato la vittoria non per affidarsi a san Gennaro: ma per semplificarsi, almeno un poco, la vita.Fra i referendum bocciati dalla Consulta, uno era quello sul sostituto d'imposta. Abolire le trattenute alla fonte, facendo sì che il datore di lavoro versi fino all'ultimo centesimo lo stipendio ai suoi impiegati, sarebbe una riforma semplicissima con implicazioni rivoluzionarie. Perché? Il sostituto d'imposta serve a consolidare tutta una serie di "illusioni politiche".Anzitutto, ed è precisamente il motivo per cui il sostituto d'imposta c'è, fa sì che i lavoratori non siano ben consapevoli di quante tasse pagano. Il "costo" che essi rappresentano per l'azienda è in buona sostanza doppio rispetto al salario che percepiscono. Quest'illusione mantiene in vita qualche residuo di lotta di classe. Il lavoratore, se ben imboccato da qualche leader dal populismo facile, arriva persino a pensare che il sistema fiscale sia concepito a vantaggio del "padrone": il quale può evadere o fare assegnamento su un buon commercialista.Siccome non ha contezza di quale sarebbe il suo reddito prima delle tasse, l'impiegato tende a non capire che c'è un prima e c'è un dopo. Cioè che, se lo Stato fosse meno famelico, avrebbe più quattrini a disposizione per sé e la sua famiglia.Non è un caso se, quando negli anni scorsi si parlava ancora di tagliare le tasse, quella fosse una battaglia che veniva ricondotta al famoso "popolo delle partita Iva". Quindi lavoratori autonomi, piccole e medie imprese, identificate come un mondo distinto e distante da quello invece della grande industria. Sull'abbattimento della pressione fiscale sulle persone fisiche, da sempre freddina. Lasciando spazio a un'altra illusione: che cioé le imprese "paghino tasse" di per sé, non in quanto avventure di uomini, individui, che sono i soli a versare parte del proprio reddito allo Stato. Anziché ricordare che ogni centesimo sottratto alle aziende è un centesimo sottratto alle persone che vi lavorano e alle persone che ne sono azionisti, la grande industria (dopo la parentesi di Antonio D'Amato in Confindustria) ha cercato di spuntare meno tributi per sé ma non per gli altri. Il risultato del puzzle è l'Italia in cui abbiamo vissuto negli ultimi quindici anni. Un Paese dove si pagano troppe tasse, e lo sanno anche i sassi. Però continuiamo a pagarle, perché la discussione politica vede il fronte dei contribuenti sempre diviso, e quindi incapace di articolare una domanda politica coerente. Di dire un "meno tasse" chiaro e ben scandito, che non sia solo un pretestuoso slogan elettorale prontamente abbandonato a urne aperte.Il quindicennio berlusconiano, in cui quello slogan, fondamentale all'affermazione iniziale del Cavaliere, è stato rapidamente disatteso, ha visto l'eclissi del contribuente. Da soggetto nuovo, sbalzato al centro della scena da Tangentopoli, a dettaglio in un quadro di crisi e progressivo peggioramento della finanza pubblica. Siamo tornati alla Prima Repubblica: le nostre istanze di pagatori di tasse, non valgono più nulla.Per questo dobbiamo ringraziare Giorgio Fidenato, un coraggioso imprenditore agricolo friulano ("Un agricoltore contro lo Stato", per citare il titolo di un suo libello), che da inizio anno si rifiuta di fare l'esattore per conto dello Stato, e versa ai suoi dipendenti lo stipendio lordo, senza ritenute. Paghino loro, ciascuno calcolando da sé quanto gli viene sottratto, tasse e contributi."Scaricare queste incombenze sul lavoratore", come ha scritto qualcuno, farebbe lievitare i costi per lo Stato - ma non è un argomento. Lo Stato ci costringe a pagare le tasse: per farlo, dovrebbe al limite facilitarci lui, non viceversa. La battaglia di Fidenato è di buon senso e di equità fiscale. Soprattutto in un periodo di crisi, nel quale il potere d'acquisto dei salari va a rattrappirsi, il lavoratore ha almeno un diritto: quello di sapere di chi è la colpa. Non dell'arcigno datore di lavoro: ma del suo socio-ombra, lo Stato, che metodicamente si mangia metà di ciò che ai singoli lavoratori per diritto e impegno spetterebbe.Gli imprenditori hanno un modo per seguire Fidenato. Imitarne la disobbedienza civile, assolutamente trasparente, alla maniera di Thoreaux e Gandhi. Noialtri possiamo almeno iscriverci al gruppo di suoi fan su Facebook. Facciamolo oggi, all'acme di quell'orgia di buone intenzioni e finti scandali che è stata la campagna elettorale. Difendiamo il diritto a un contadino buon senso.

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