Esattamente tra un mese, dal 27 al 29 marzo, si svolgerà il congresso di fondazione del Popolo della libertà. Dalla fusione tra Forza Italia e Alleanza nazionale (più altri soggetti minori) risulterà il più importante partito italiano e uno dei più grandi in Europa. Una scadenza che sinora non è stata presa troppo sul serio dai mezzi di informazione e dal mondo politico-culturale cosiddetti “ufficiali”. A suo tempo, la costituzione del Partito democratico è stata scandita da un’intensa discussione pubblica, che in alcuni momenti ha persino sfiorato lo psicodramma collettivo. La comparsa di un sinistra riformatrice e post-ideologica ha prodotto, sin dal primo momento, speranze ed entusiasmi, dibattiti articolati e pubblicazioni ponderose, ma ciò non ha evitato il naufragio politico che abbiamo avuto dinnanzi agli occhi in questi mesi e settimane. La sufficienza che sta accompagnando l’avventura del Pdl, motivata dall’errata convinzione che si tratti dell’ennesimo giocattolo berlusconiano, potrebbe dunque suonare come un auspicio di lunga vita. Si direbbe che la sinistra pensa molto e gode di grandi attenzioni mediatiche, ma ciononostante fallisce drammaticamente i propri obiettivi. Mentre la destra, poco avvezza al dibattito interno e ancora largamente ignorata dagli opinionisti, raggiunge silenziosamente e con decisione tutti i suoi traguardi. Ciò chiarito, è giunto egualmente il momento di accendere i riflettori su questo nuovo soggetto, generato con modalità effettivamente insolite: attraverso un solitario atto di volontà e un grandioso colpo di teatro, già passati alla cronaca come la “rivoluzione del predellino”. La teoria vuole che i partiti nascano dal basso, per aggregazioni successive e crescenti di interessi e passioni. La pratica e l’esperienza del Pdl dimostrano che possono venire al mondo partendo dall’alto, sulla base di una miscela di intuizione e ingegneria, sommando la forza visionaria di un leader e le capacità organizzative di un gruppo dirigente politicamente motivato. Ma creare un partito non è lo stesso che farlo vivere e durare, specie se la motivazione che sorregge lo sforzo di un parto tanto impegnativo è, come in questo caso, quella di dare compiutezza alla cavalcata solitaria e trionfale di un uomo solo: di rendere un giorno possibile e agevole il passaggio da Berlusconi al berlusconismo, inteso come famiglia o eredità politica radicata nella storia del paese. Cosa dovrebbe dunque essere il Pdl per risultare, non solo vincente nell’immediato, ma vitale e longevo? E cosa dovrebbe evitare per non ripetere le difficoltà del suo omologo oggi in pieno marasma? Dire, come si è detto spesso in queste settimane, che sarà, per necessità e virtù, un partito presidenziale e carismatico è ancora dire poco. La leadership è essenziale, ma per risultare efficace non può agire in una sorta di eterno vuoto politico. Per conseguire i suoi obiettivi di lungo periodo un tale partito avrà anche bisogno di regole chiare e cogenti, che ne garantiscano la democrazia interna e assicurino dunque un effettivo pluralismo tra le sue diverse componenti ideali; di un radicamento efficace sul territorio, condizione indispensabile affinché la sua classe politica, ad ogni livello, venga selezionata nel fuoco della lotta politica e non cooptata dall’alto, come oggi spesso avviene; e per finire di un apparato, leggero quanto si vuole, di militanti e iscritti che possa realmente partecipare alla sua vita istituzionale, arricchendola di esperienze e contenuti. Come tutti i partiti a vocazione maggioritaria che operano nelle altre democrazie occidentali, anche il Pdl non potrà che essere, per venire ai contenuti, inclusivo e plurale e perciò tutt’altro che dogmatico e culturalmente monolitico: un partito dalle molte idee seppure guidato da una sola volontà. Dovrà parlare alla società italiana nel suo complesso, in tutte le sue articolazioni e differenze, e dovrà perciò possedere una vocazione autenticamente nazionale e una dose necessaria di laicità e di senso delle istituzioni. Dovrà guardare al futuro e perseguire obiettivi di innovazione, avendo tuttavia salde radici nella storia e nella memoria dell’Italia. Quanto ai valori, meglio non enfatizzarli o brandirli troppo, dal momento che essi per definizione dividono; senza contare che la politica, nella sua pratica quotidiana, rischia solo di svalorizzarli e inflazionarli. Tra i pericoli da evitare, visto ciò che è accaduto nel Pd, il principale è quello di accontentarsi di far convivere al proprio interno tradizioni politiche e identità radicate nel passato ma che la storia ha largamente reso obsolete: il comunismo è fallito da un pezzo, ma anche il liberalismo oggi non se la passa tanto bene. Forse occorre, sotto ogni latitudine politica, un generale rinnovamento delle idee. Entrando nel Pdl, gli ex di ogni partito dovranno accettare di mettersi in discussione, di ricercare nuove e inedite sintesi ideologiche, di creare un nuovo senso di appartenenza, di declinare in forme nuove le visioni ideali e politiche che hanno ricevuto in eredità. Nemmeno lontanamente, poi, il partito che nasce dovrà assomigliare ad una coalizione o, peggio, ad una aggregazione di forze tenute insieme solo da un temporaneo vincolo di fedeltà personale al leader, senza che maturi una visione politica condivisa: un tale partito non avrebbe alcun futuro. Ma il rischio peggiore sarebbe la chiusura oligarchica dei suoi gruppi dirigenti, con la messa a punto di meccanismi di partecipazione fittizi o soltanto coreografici. Sarebbe una colpa mortale per un partito che nasce nel nome del popolo e della libertà.Di certo c’è, per concludere, che il nascente Pdl rappresenta un’occasione irripetibile, che se affrontata con convinzione e senza retropensieri potrebbe determinare cambiamenti assai importanti nella politica italiana.
Alessandro Campi
*Direttore scientifico della fondazione Farefuturo
Questo articolo è uscito su Il Tempo del 27 febbraio 2009
*Direttore scientifico della fondazione Farefuturo
Questo articolo è uscito su Il Tempo del 27 febbraio 2009
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